La tutela mancata e il restauro architettonico.

La tutela mancata e il restauro architettonico
intervento di Giovanni Losavio al convegno “Riflessioni e confronti sull’articolo 9 della Costituzione”
Bologna Museo Civico Archeologico, 27 maggio 2023

Perché diciamo che è mancata la tutela dell’art.9. La tutela secondo l’art.9 non è (come nella lettura riduttiva di Cassese e Amato) la mera costituzionalizzazione delle due preesistenti e allora vigenti leggi del 1939, intitolate, l’una, alla tutela delle cose di interesse artistico e storico, l’altra, alla protezione delle bellezze naturali. L’art.9 è una franca rottura nella continuità dell’ordinamento: unitario patrimonio storico e artistico, in luogo delle cose; paesaggio, in luogo delle bellezze naturali. La tutela è funzione primaria della Repubblica e orienta l’esercizio di ogni altra funzione. Patrimonio e paesaggio portati nei selezionatissimi principi fondamentali e fatti oggetto della responsabile tutela della Repubblica, perché ne sono un connotato essenziale e concorrono a formare lo statuto di cittadinanza; la tutela del secondo comma dell’art.9 nel rapporto di consecuzione funzionale al primo comma partecipa alla promozione dello sviluppo della cultura.
Una radicale innovazione che avrebbe dunque impegnato il legislatore ordinario a una sollecita attuazione. Sembrò che se ne fosse intesa la necessità solo alla metà degli anni Sessanta con la Commissione parlamentare di indagine Franceschini, naufragata nella conclusiva proposta di una gelosa separata amministrazione autonoma, sottratta alla responsabilità politica e all’indirizzo di alcun ministro. Finché, proponente Spadolini, il decreto legge n.657 del 1974 (arbitrario esercizio governativo della potestà legislativa, carente all’evidenza il requisito esclusivo del caso straordinario di necessità e urgenza) istituisce il ministero per i beni culturali e per l’ambiente (ma presto corretto per i beni ambientali) e al nuovo ministero assegna il compito di provvedere alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio culturale del Paese. Non la unitaria esauriente funzione di tutela dell’art. 9, quindi, ma due distinti compiti, la tutela e la valorizzazione. E’ questo il momento in cui fa ingresso nell’ordinamento giuridico di patrimonio e paesaggio la espressione lessicale valorizzazione, a indicare la nuova funzione. Innovazione, palese espressione della nozione riduttiva della tutela come ordinata alla mera conservazione fisica del suo oggetto. Non si sa intendere che valorizzazione è compito essenziale della tutela, anzi la sua intrinseca finalità e scindere quell’endiadi comporta una menomazione del principio stesso dell’art.9, alla cui copertura la valorizzazione si sottrae, rimanendo per altro esclusa dal rapporto con il primo comma nella funzione di promozione dello sviluppo della cultura.
Il testo unico del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 aveva quindi ritenuto suo compito ordinare (in un apposito capo VI del titolo beni culturali), come attinenti alla funzione di valorizzazione, le vigenti disposizioni in tema di fruizione del patrimonio pubblico, come musei, archivi, biblioteche, aree e parchi archeologici.
Si ricorderà che il completamento dell’ordinamento regionale (al quale il governo era impegnato dalla legge delega del 1975) era inciampato nel tema della tutela del patrimonio storico e artistico e il decreto 616 del 1977 diede solo parziale adempimento alla delega, rimettendo alla attesa (ma invano) legge ordinaria di riforma della tutela la definizione delle attribuzioni, in questa materia, di regioni ed enti locali. Solo nel 1985 un colto sottosegretario ai beni culturali, lo storico Giuseppe Galasso, assunse il compito di dare sostanza precettiva alla tutela del paesaggio dell’art.9, decretò beni paesaggistici per legge le strutture portanti del territorio, coste marine, zone contermini ai laghi, fiumi e corsi dacqua pubblici e gli spazi di riva, il sistema orografico di alpi e catena appenninica alle quote elevate, i vulcani, terreni coperti da foreste e boschi, zone umide, e quelle con riconoscibile speciale configurazione in ragione della vicenda storica, come le aree assegnate alle università agrarie o gravate da usi civici e le zone di interesse archeologico; e ne fece oggetto della disciplina dei piani paesaggistici affidati alla cura congiunta di stato e regioni: un assetto istituzionale/funzionale appropriato cui non hanno saputo rispondere adeguatamente né lo Stato che non ha impegnato le necessarie competenze della amministrazione centrale e periferica del ministero beni culturali, né le Regioni restie a dettare nello speciale piano prescrizioni vincolanti per la pianificazione generale sottoordinata e indulgenti nella previsione di ampie eccezioni alle regole.
Alla definizione delle rispettive attribuzioni di Stato e Regioni nella materia della tutela, che in sede di completamento dell’ordinamento regionale era stata rimessa alla attesa legge di riforma di quella materia, come già si è detto, provvedette infine a suo modo la avventurosa riforma del titolo V della costituzione (legge cost. n.3 del 2001), che diversamente in generale regola potestà legislativa e funzioni amministrative (queste ultime rimesse all’attuazione in concreto del principio di sussidiarietà: art.118) e coglie, nella ricevuta distinzione normativa dei compiti di tutela e di quelli di valorizzazione, il dispositivo di comodo – se non possa dirsi l’espediente – per fondarvi il criterio discretivo della potestà legislativa al riguardo di Stato e Regioni: riservata allo Stato quella di tutela dei beni culturali (lettera s del secondo comma dell’art.117), mentre è materia di legislazione concorrente (comma terzo), che spetta quindi alle Regioni, la valorizzazione dei beni culturali e ambientali, mantenuta alla legislazione dello Stato la (sola) determinazione dei principi fondamentali. Tutela e valorizzazione, distinte funzioni e oggetto di differenziate materie di potestà legislativa.
Questo dunque il quadro normativo e costituzionale entro il quale si è esercitata (2003 – 2004) la ambizione sbagliata del ministro (era Urbani) di legare il suo nome a un impegnativo codice (non un modesto riepilogativo testo unico) che si misura con la gloriosa legge 1089 del 1939. Più risolutamente del testo unico del 1999, il codice costruisce la disciplina normativa di beni culturali e paesaggio sul binomio tutela e valorizzazione, che vuole distinte e convergenti sul patrimonio e su quella discrasia costruisce la sua disciplina, si impegna nelle rispettive definizioni con gli articoli 3 e 6 delle disposizioni generali della parte prima (che falliscono palesemente il compito di rendere la distinzione concettuale, per offrire argomenti invece alla valorizzazione/fruizione come funzione interna e propria della stessa tutela) e dedica poi, nella parte seconda, il titolo primo, a tutela (articoli 10 – 100) e, il titolo secondo, a fruizione e valorizzazione (articoli 101 – 127). Il rigido sistema binario apre la via alla spericolata riforma di organizzazione del ministero. Si scardina il consolidato assetto della tutela territoriale fondato sulla compatta struttura delle soprintendenze in ragione delle distinte competenze tecnico-scientifiche a coprire le differenziate materie/discipline, colpita a morte quella per i beni [mobili] storici e artistici cui è sottratto l’istituto sul quale si era storicamente costituita – la galleria – come soprintendenza appunto alle gallerie; attratti gli istituti museali nell’ordine della valorizzazione, ad essi, come articolazione dei poli museali regionali, è riconosciuta autonomia tecnico-scientifica, a taluni autonomia speciale (complessamente organizzata), secondo una arbitraria selezione in ragione del rilevante interesse nazionale (discriminati tutti gli altri privi dunque di quella rilevanza); sono accorpate infine nella unitaria soprintendenza antichità, belle arti [un vezzo il ripristino della desueta espressione] e paesaggio tutte le soprintendenze, esclusa quella archivistica e bibliografica, ma compresa quella archeologica, da sempre generalmente ordinata secondo l’ampia dimensione di aree storiche e dotata a quel livello di unitari servizi di documentazione, raccolte-reperti e museali, ora frammentata e forzata nel limitato orrizzonte burocratico – territoriale della soprintendenza unica (riscattata come olistica nel pretenzioso linguaggio burocratico ministeriale) diretta da un funzionario necessariamente incompetente in due delle tre materie affidate alla sua cura. Depressa la tutela, ogni cura ai musei che servono al turismo. Infine la recente mortificazione della tutela del paesaggio consumata con la manomissione dell’intoccabile principio fondamentale dell’art.9 cui è aggiunto uno spurio terzo comma: la configurazione dei valori dell’ambiente come oggetto di una autonoma distinta tutela apre la via al potenziale conflitto con quelli del paesaggio, esposti all’elevato rischio di cedere nel concreto bilanciamento. Dal 1948 ad oggi il processo di snervamento della tutela dell’art.9 che a ragione possiamo dire mancata.

Perché in questa sede di riflessioni e confronto sull’art.9, abbiamo voluto introdurre il tema del restauro e in particolare di restauro delle architetture; e diciamo innanzitutto perché, per Italia Nostra, ne possiamo parlare senza essere cultori della dedicata disciplina, ne abbiamo cioè titolo nell’esercizio di quella funzione critica in tema di tutela del patrimonio storico e artistico della Nazione che è propria della nostra associazione; e ne possiamo parlare impiegando i comuni strumenti cognitivi, se si può dire così, della generale cultura, in rapporto al modello normativo dell’art. 29 del codice che detta una stringente disciplina conservativa, come subito diremo. Due necessarie premesse nel merito. Il tema del restauro, definito ormai nel sicuro fondamento dei generali principi in sede disciplinare, è rimasto nella pratica controverso e controvertibile sol quando debba misurarsi con lo speciale oggetto, le architetture; mentre la valutazione dei modi in concreto di intervento sulla materialità dei singoli edifici tutelati (l’esercizio del vaglio autorizzativo degli artt.21 e 22 del codice beni culturali e paesaggio) costituisce certamente il compito preminente e più, possiamo dire, appariscente, esposto cioè all’apprezzamento della opinione pubblica interessata, rispetto ad ogni altro compito, oggi, della unificata soprintendenza (esclusa dalla cura di musei e raccolte d’arte). Ed è il campo del confronto critico assai spesso anche aspro tra Italia Nostra e le Soprintendenze. Restie a riconoscere i costrittivi vincoli della disciplina conservativa (istanza primaria della tutela) dettata dall’art.29 del codice, per rivendicare un ampio margine di discrezionalità nell’apprezzamento della valorizzazione (e indulgere anche a radicali ristrutturazioni), un’attitudine che è il riconoscibile indebito riflesso nella prassi della scomposizione in linea di principio della unitaria tutela dell’art.9, privata della sua essenziale finalità intriseca, la valorizzazione, divenuta autonoma materia/funzione oggetto di più libero apprezzamento. E qui si coglie il criterio di collegamento al tema generale di questo nostro incontro.
Con speciale riguardo alla disciplina conservativa delle architetture diremo brevemente come il restauro sia divenuto oggetto dell’ordinamento giuridico. Utile fermare il momento in cui, da tema della animata riflessione della disciplina dedicata, il restauro è entrato nell’orizzonte, e nel lessico, normativo; per seguire poi lo sviluppo che ha condotto alla definizione di un modello di comportamento (come categoria di intervento nel costruito) rilevante in funzione di distinte applicazioni. Diremo subito che l’asciutta legge che nel 1939 si cimenta nel disegnare una moderna tutela delle cose di interesse artistico o storico non ritiene proprio compito impegnarsi a dettare i modi appropriati a soddisfare e garantire l’esigenza conservativa delle cose e si affida alla cultura professionale dei soprintendenti, chiamati a valutare i progetti delle “opere di qualsiasi genere” che i proprietari intendano eseguire; più specifica la considerazione delle opere sulle “cose” appartenenti a enti pubblici che, senza autorizzazione, “non possono essere demolite, rimosse, modificate o restaurate”. E qui, nella considerazione espressa di questo modo tipico di operare sulle cose oggetto della tutela, il restauro entra nell’ordinamento giuridico per essere rimesso all’apprezzamento discrezionale del soprintendente orientato in quell’esercizio, deve intendersi, dai principi condivisi elaborati dalla speciale disciplina. La legge entrò in vigore alla vigilia del conflitto e trovò in pratica la prima applicazione nell’opera di ricostruzione postbellica che non sempre dimostra la fermezza di quei principi.
E’ con il piano decennale per l’edilizia residenziale promosso dalla legge 5 agosto 1978, n. 457, che promuove il recupero del patrimonio edilizio ed urbanistico esistente (e in questa funzione finanzia interventi di edilizia sovvenzionata e convenzionata-agevolata), che si pone la necessità operativa di dare la “definizione degli interventi” “rivolti alla conservazione, al risanamento, alla ricostruzione e alla migliore utilizzazione del patrimonio stesso” (da valere anche oltre l’impiego dei formali piani di recupero di iniziativa pubblica e privata), dunque manutenzione ordinaria e straordinaria, restauro e risanamento conservativo, ristrutturazione edilizia e ristrutturazione urbanistica. E sono modelli che si impongono generalmente, a disciplinare gli interventi nel costruito, sui piani regolatori e sui regolamenti edilizi, andando a costituire nel panorama nazionale degli strumenti urbanistici il fermo e costante denominatore comune. E’ la disciplina conservativa cui si deve quanto è stato salvaguardato nei tessuti edilizi degli insediamenti urbani storici del nostro paese e delle altre “zone di carattere storico, ambientale e paesistico” del territorio, la cui autonoma concorrente tutela era divenuta dal 1968 (con una piccola legge, ma decisiva nel valorizzare il ruolo dell’urbanistica) contenuto proprio, essenziale, del piano regolatore. Restauro e risanamento conservativo, un obbiettivo criterio normativo di riferimento per la tutela del patrimonio edilizio affidato alla cura dello strumento urbanistico, a confronto della libera incontrollabile discrezionalità della tutela dei monumenti esercitata dai soprintendenti.
La legge del 1939, muta sui modi del restauro, rimane vigente fino al “testo unico in materia di beni culturali e ambientali” del 1999 (d.lgs. 29 ottobre1999, n.490) che dedica una sua sezione a Restauro e altri interventi e del restauro nell’art. 34 dà una sobria definizione come “l’intervento diretto sulla cosa volto a mantenere l’integrità materiale e ad assicurare la conservazione e la protezione dei suoi valori culturali”. Definizione che regge un lustro, fino al gennaio 2004 con il codice dei beni culturali e del paesaggio che si misura con la definizione degli interventi nel costruito data dalla legge 457 del 1978 e ripresa (con qualche incisiva modifica quanto a manutenzione straordinaria e ristrutturazione edilizia) dall’art.3 del testo unico dell’edilizia (decreto legislativo 6 giugno 2001, n. 380), assumendo – il codice – in proprio quel compito con il suo articolo 29 intitolato alla conservazione. Che è assicurata mediante una coerente, coordinata e programmata [eccesso di aggettivi] attività di studio, prevenzione, manutenzione e restauro e che cosa per queste attività così tipizzate si intende è detto specificamente. Dunque su manutenzione e restauro del costruito si è consolidato un sistema binario per distinti e autonomi ambiti di applicazione. Assai più analitica e specifica, perfino minuziosa la disciplina dettata dal testo unico dell’edilizia; orientata alla indicazione di metodo e principi quella dell’art.29 del codice che riguarda la generalità dei beni, mobili e immobili. Dei due commi dello stesso articolo che dicono rispettivamente cosa debba intendersi per manutenzione e restauro deve darsi una lettura integrata: l’efficienza funzionale del bene oggetto della manutenzione – comma 3 – del bene-edificio, che assicura la permanenza dell’uso come condizione della sua conservazione, è per certo finalità essenzialmente perseguita dal restauro pur se il dedicato comma 4 esplicitamente non la indichi. Manutenzione e restauro, quando si tratti di operazioni su beni culturali, non possono dirsi concettualmente e essenzialmente distinte, registrando invece le – date – diverse e accidentali condizioni conservative dello specifico bene oggetto dell’intervento. E appunto la perseguita efficienza funzionale legittima le necessarie innovazioni e insieme pone il limite invalicabile del nuovo dentro l’edificio restaurato; e innovazione conservativa (ossimoro solo apparente) è il miglioramento strutturale in funzione antisismica esplicitamente contemplato come appropriato al restauro. Restauro come operazione finalizzata all’integrità materiale degli specifici caratteri peculiari che contraddistinguono il bene e ne impongono la tutela, come i suoi valori culturali, che il restauro protegge, ne garantisce permanenza e trasmissione. Presente sullo sfondo, sicuro orientamento al restauro, la prescrizione negativa degli interventi e degli usi vietati dall’art. 20 che in positivo abilita in via esclusiva quelli compatibili con il carattere storico o artistico dei beni; mentre, se la valorizzazione dell’art.6 è diretta ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica, è pur sempre attuata in forme compatibili con la tutela e tale da non pregiudicarne le esigenze. Rimane impegnativa – nella varietà dei casi – la valutazione del rapporto in tensione tra conservazione e uso, quando la persistenza nel tempo della storica funzione dell’edificio esiga trasformazioni anche strutturali e quando, esaurita irrimediabilmente la funzione storica, il nuovo ipotizzabile uso, che assicura la conservazione, comporti analoghe trasformazioni e debbono essere in concreto definite le condizioni di compatibilità/ammissibilità di trasformazioni e uso.
Nella eterogenea prassi dei restauri, tutti abilitati dal filtro della tutela istituzionale di soprintendenza, non raramente si smarriscono i confini tra restauro e ristrutturazione perfino radicale, con il paradossale effetto che le autorizzazioni della soprintendenza sollevano in pratica dalla osservanza della comune disciplina edilizia del restauro secondo piano regolatore conforme alla definizione dell’art.3 del tu dell’edilizia. E dagli stessi uffici centrali di orientamento del ministero abbiamo potuto ascoltare l’indirizzo secondo cui i modi di operare sui beni culturali (e l’occasione era data da un controverso intervento su una illustre architettura) non si esauriscono nella tipizzazione delle “misure di conservazione” dettate dall’art.29 del codice (lì sta la tutela, ma poi si aprono i liberi spazi della valorizzazione), così da legittimare in pratica anche esiti di radicale trasformazione del monumento architettonico con (irresistibili) innesti modernizzanti.
Nel modello normativo del restauro come innovazione conservativa/funzionale sta la ricostruzione del monumento colpito da un recente evento distruttivo (siano collasso strutturale, sisma, guerra) secondo l’unico ammissibile progetto saputo cogliere nell’edificio come era nell’attimo che precedette il crollo: in quell’assetto l’edificio era stato riconosciuto di interesse culturale e arbitraria è ogni diversa ipotesi di ricostruzione, estranea alla competenza istituzionale di tutela. Unica alternativa concettualmente ammissibile è la registrazione della perdita irreparabile e le rovine rimangono l’oggetto della tutela.
Nella impostazione necessariamente selettiva dell’oggetto della tutela secondo il codice (art.10), alla disciplina normativa del restauro sfugge la considerazione del rapporto al contesto, la relazione dell’edificio con il luogo della sua vicenda storica, sia urbano sia extraurbano, del quale l’edificio è elemento costitutivo e nel quale esercita, se così si può dire, la propria funzione. Un rapporto biunivoco. Lì costruito e lì il restauro ne assicura la permanenza. Insomma il restauro dell’edificio è dovuto anche all’integrità del suo ambiente. Se si ritenesse non risolutiva la tensione al recupero, dichiarata espressamente nel restauro dell’art.29, per rimettere in piedi le architetture atterrate, è il contesto ferito nella sua integrità che chiede di essere risarcito con il fedele ripristino di quel suo elemento caduto. E non è solo il caso (certo quello di più immediata evidenza) dell’evento distruttivo che abbia colpito il monumento architettonico partecipe dell’insediamento urbano storico (esso stesso un complesso ma unitario bene culturale) e la lacuna così aperta nel tessuto connettivo della città pretende di essere reintegrata. Se il restauro monumentale deve rapportarsi al contesto urbano, diviene partecipe di quella più vasta operazione che vuole assicurare permanenza/conservazione alla composizione della città storica nei modi del restauro urbano, l’acquisizione innovativa nel metodo della moderna disciplina dedicata.

27 maggio 2023.

Giovanni Losavio

Programma del convegno:

foto: appennino modenese, verso Monfestino dal borgo di Castellino delle Formiche