Modena: premessa al convegno “Beni culturali di interesse religioso. Tutela ed esigenze di culto”

Modena, Accademia Nazionale di Scienze Lettere Arti, 17 maggio 2012.

Beni culturali di interesse religioso. Tutela ed esigenze di culto.

Breve nota introduttiva di Giovanni Losavio

Come tutte le iniziative di Italia Nostra, anche l’idea di questo incontro, che mette a confronto competenze diverse di storici dell’arte e studiosi e storici degli assetti istituzionali, è maturata sotto lo stimolo della attualità della tutela e della prassi del suo esercizio. Parliamo di  beni culturali di ispirazione religiosa che sono la gran parte ed essenziale dell’unitario patrimonio storico e artistico della nazione, non solo per l’altissima qualità e la diffusione di trama continua che innerva il paese, ma per la capacità espressiva dei molteplici aspetti di cultura e vita dell’intera comunità civile e delle sue vicende nel tempo e perciò sono sentiti come patrimonio di tutti.

I beni culturali di ispirazione religiosa costituiscono l’impegno forse più rilevante, anche quantitativamente, nei compiti delle istituzioni della tutela statale. E gli edifici di culto cattolico sono stati negli ultimi decenni e continuano ad essere oggetto degli interventi di adeguamento alla riforma liturgica del Concilio Vaticano II. Ebbene, l’osservazione del panorama nazionale di questi interventi, eterogenei nel metodo e per la qualità di resa, non rivela un indirizzo sicuro e di coerente applicazione nell’esercizio della tutela. Sono state infatti assecondate anche in insigni cattedrali soluzioni di radicali trasformazioni che hanno cancellato assetti fisici consolidati nella tradizione postridentina, con la irreparabile perdita di essenziali documenti della vicenda storica di  monumenti caratterizzati, come nessun altro, dalla straordinaria continuità e persistenza nel tempo della medesima funzione. Assolutamente unici per la complessità e la natura composita  dei contenuti, per la ricchezza cioè dei significati che la vicenda anche ultramillenaria (le basiliche paleocristiane) della devozione e della comunità civile di contesto ha impresso nei luoghi del culto cristiano. Monumenti, viventi nella attualità del culto, che nella persistenza della funzione vedono la prima garanzia di conservazione e tutela.

Le soprintendenze hanno assistito consenzienti anche a soluzioni di pessima qualità formale come riconoscono infine i più colti osservatori dello stesso mondo ecclesiastico. Che però di recente hanno ancora mostrato di condividere il fragile argomento della ineluttabilità delle trasformazioni e della attualizzazione dei lasciti del passato, perché così si è sempre fatto nei secoli e non si può mortificare il diritto dei moderni (ma è proprio il rispetto del passato l’acquisizione dei moderni, siamo moderni perché sappiamo rispettare il passato) e rivendicano per la religiosità di oggi la libertà di ricercare la propria genuina espressione di rappresentazione artistica non solo nelle chiese di nuova fondazione ma anche  in quelle della tradizione e pure con il sacrificio di significati della storia della devozione come è documentata nell’assetto fisico di strutture ed arredi.

Ecco, ci domandiamo, gli interventi sugli edifici di culto che riflettono la vera e propria sospensione della  tutela (con i suoi  principi di conservazione degli assetti storici in cui il singolo bene è giunto fino a noi ed è affidato alla nostra responsabilità) sono necessitati dalle innovazioni degli accordi tra stato e chiesa cattolica votate dal parlamento nel 1984 e dalle consecutive intese attuative o sono invece espressione di una unilaterale inammissibile rinuncia all’esercizio della generale funzione di salvaguardia del patrimonio storico e artistico per beni che ne sono parte essenziale?

Sono ben note le ragioni che Italia Nostra preoccupata oppose all’inserimento entro il rinnovato patto concordatario (1984) di una materia (“arte e storia”) non compresa negli accordi del 1929, e per di più con l’impegno dello Stato a concordare con la Chiesa, attraverso specifiche intese, come “armonizzare” le norme della tutela con le “esigenze di carattere religioso”. Era sembrata una inammissibile rinuncia all’esercizio esclusivo dello Stato di una essenziale funzione pubblica (una tutela negoziata?). Quelle ragioni furono allora argomentate in un appello (voluto da intellettuali di indiscusso prestigio, primo a sottoscriverlo un cattolico di fermissima fede, Giuseppe Alberigo) al Presidente Pertini che dichiarò di condividerlo, ma poi nulla oppose al testo predisposto dalla paritetica commissione Gonella. Se a un nuovo accordo delle due parti è rimesso il compito, come dice l’art. 12 del concordato modificato, di armonizzare la legge italiana di tutela con le esigenze di carattere religioso, non solo è colpita l’esclusività statale della funzione normativa, ma si configura una disciplina speciale di tutela differenziata che lede il principio di unità del patrimonio storico e artistico.

Nel 1993, quando una prima stesura della Intesa fu annunciata in Parlamento dal sottosegretario del ministero dei beni culturali, Italia Nostra vide confermate le sue preoccupazioni (rappresentate alla Camera dal deputato ed ecclesiasticista Luciano Guerzoni)  e la pubblicazione di un Quaderno della Associazione con i saggi dello stesso Guerzoni, di Piero Bellini e Sergio Lariccia non è escluso che abbia contribuito alla sostanziale revisione delle intenzioni così della rappresentanza governativa come della CEI. Fu infatti abbandonata la proposta di affidare l’esercizio in concreto della tutela dei beni di interesse religioso di appartenenza ecclesiastica a quello speciale organo nel quale si raccordano i distinti interessi della pubblica amministrazione, la conferenza di servizi, aperta alla partecipazione paritaria della stessa autorità ecclesiastica (esplicita commistione tra i due ordini per la cogestione della funzione). Tutt’altra cosa fu l’Intesa di tre anni dopo, di tono dimesso e in sostanza orientata a  una prudente interpretazione della espressione “esigenze di carattere religioso” dell’art. 12 del nuovo concordato riportata letteralmente a quella dell’art. 8 della legge 1089 del 1939 (oggi art. 9 del “codice dei beni culturali”), perché lo specifico accordo con l’autorità ecclesiastica, in ordine al singolo intervento, vi è previsto appunto in funzione delle “esigenze di culto” e dunque limitatamente agli edifici di culto. Come sembra riconoscere la nuova Intesa del 2005 che negli articoli 2, comma 5, e 5, comma 3,  pone in ogni caso (e pure per i “progetti di adeguamento liturgico”) la esplicita pregiudiziale della “conformità alle disposizioni della legislazione statale in materia di tutela”. E là dove nell’art.2 enuncia i principi concordati al fine di armonizzare la legge italiana con le esigenze di carattere religioso, richiama in realtà disposizioni che ben possono dirsi comuni ai beni culturali di diversa ispirazione e conferma per altro che il previsto specifico accordo sugli interventi conservativi degli edifici aperti al culto è in funzione esclusiva delle esigenze di culto, come già dispone il “codice” (2004 – 2008) e aveva disposto la gloriosa legge 1089 del 1939, con l’unica novità di una istanza superiore nella ipotesi di mancato accordo al livello locale, ma soltanto in presenza di rilevanti questioni di principio.

Può dirsi dunque superata la preoccupazione di Italia Nostra, perché dall’articolo 12 del concordato modificato, come poi in concreto posto in attuazione, non è derivata alcuna limitazione all’esercizio esclusivo dello Stato della funzione di tutela?   Questo l’interrogativo che si pone e cui si propone di rispondere il nostro convegno, specie a confronto con il panorama allarmante di manomissioni nell’assetto storico consolidato degli edifici di culto e anche di insigni cattedrali (basti pensare al San Martino di Lucca, al duomo di Pisa e alla cattedrale di Padova, per non dire del Sant’Ambrogio milanese amputato del presbiterio) per ragioni di adeguamento alla riforma liturgica del Vaticano II. Tutti interventi in patente contrasto con i principi consolidati di tutela del bene di interesse storico e artistico, principi che certo non si oppongono all’inserimento di una nuova appropriata mensa entro lo spazio del presbiterio (secondo l’orientamento del celebrante verso l’aula dei fedeli), ma precludono la rimozione dei molteplici arredi della chiesa post-tridentina, altari monumentali compresi (come ora è avvenuto nella Cattedrale di Reggio Emilia, ma già era avvenuto nel Tempio Malatestiano di Rimini, per lo splendido altare neoclassico, che era stato miracolosamente risparmiato dal devastante bombardamento del 1944), con la menomazione irrisarcibile del significato documentario del secolare edificio di culto.  E allora questi esiti di trasgressione dei principi di tutela, piuttosto che ai temuti condizionamenti dell’art. 12 del Concordato e delle due consecutive Intese, debbono essere imputati al malgoverno della tutela esercitata dalle istituzioni dello stato, soprintendenze e corrivi comitati tecnico-scientifici del ministero?  Perché dall’attenta analisi affidata ad autorevoli studiosi delle istituzioni pubbliche del vigente quadro normativo come definito dalla intesa del 2005 e infine dall’art.9 del Codice  possiamo ricavare la certezza che non ne è  vulnerata in alcun modo l’esclusiva statale della tutela che è posta come principio fondamentale dall’art. 9 della Costituzione?  E se ai custodi dei templi cattolici non può essere riconosciuta come espressione delle esigenze di culto (già rispettate nella legge del 1939) la libera disponibilità degli assetti storici della tradizione devozionale, perché contrasta con le ragioni della tutela secondo la legge dello stato, le diffuse manomissioni delle Chiese monumentali riflettono allora un difetto della cultura istituzionale della tutela  (la cui prima imprescindibile istanza, lo ripetiamo, è  quella conservativa scolpita nell’ art. 29 del “codice dei beni culturali”), quando non una più colpevole attitudine di unilaterale rinuncia al doveroso esercizio della funzione?

Perché non appaia una intenzionale esclusione, diremo che abbiamo cercato l’interlocutore rappresentativo della voce della commissione episcopale italiana, ma il direttore dell’ufficio beni culturali della Cei che abbiamo voluto incontrare,  così come il suo predecessore successivamente interpellato, hanno rifiutato la proposta di impostare il convegno come un diretto aperto confronto e hanno declinato l’invito anche a una diversa forma di partecipazione. E’ invece espressione di una scelta, certamente opinabile, il non aver rivolto quella stessa proposta a chi rappresenta le istituzioni della tutela e da quel che si è detto fin qui credo che si possa ricavarne la ragione. Per convincerci, ma con molta apprensione, che non ci sono le condizioni per avviare insieme la riflessione aprendo un proficuo confronto, ci è bastato ascoltare quel che da Roma è venuto a dire a dicembre scorso, su questi problemi,  nell’aula magna del seminario di Reggio Emilia, alla solenne cerimonia di inaugurazione della Cattedrale reggiana desacralizzata e convertita in funzionale moderna sala convegni, il segretario generale del ministero dei beni e delle attività culturali, recentemente promosso a sottosegretario, applaudito dalla corte dei suoi soprintendenti. Mentre in quella occasione abbiamo ascoltato con ben altro interesse pur se in rispettoso dissenso le riflessioni del priore della comunità monastica di Bose e Tomaso Montanari ha fatto bene ad accettare il suo invito a partecipare al convegno internazionale sull’adeguamento liturgico delle chiese (a Bose a cavaliere di fine mese)  per ripetere (sicuro di un intelligente ascolto)  le stesse cose che ci avrà detto qui questo pomeriggio.

G.L.