Investire, ma oculatamente.

sassuolo comune parco“Rinascita” del ducato estense, un’idea a dir poco curiosa e insostenibile sul piano culturale.

La posizione di Italia Nostra.

Il finanziamento milionario per il patrimonio artistico monumentale di Modena Reggio Emilia e Sassuolo è una buona notizia: è la risposta giusta ad aspirazioni a lungo accarezzate per il completamento di restauri, o l’avviamento di nuovi, che potranno dare compimento a progetti di area territorialmente condivisi con altre situazioni già rese espressive da tempo. La riqualificazione dell’ex Ospedale Estense, attesa da decenni per dare spazio agli istituti culturali ubicati ai tre piani del Palazzo dei Musei senza che ne abbiano a soffrire traumaticamente i rispettivi patrimoni – scampato pericolo di ventilati traslocamenti-, gli interventi a Palazzo Ducale, l’attenzione finalmente operativa prospettata per la facciata prospiciente il giardino e per il giardino stesso del Palazzo Ducale di Sassuolo, il restauro del Castello di Sestola e dell’annessa chiesa di S. Nicolò, sono tutti fattori positivi che premiano una provincia virtuosa che ha saputo negli ultimi decenni amministrare con buona progettualità e tenacia il proprio patrimonio.

Il merito va al Ministro Franceschini  che non ha lesinato su quella che ormai è nota come “rinascita” del ducato estense, un’idea a dir poco curiosa e a nostro parere insostenibile sul piano culturale. Dare interpretazione oggi ad itinerari interprovinciali da Ferrara a Lucca, passando per l’Appennino modenese e reggiano sotto il segno degli Este, come se l’unica impronta di civiltà per quei territori fosse stata quella apportata dal nobile casato di ascendenza ferrarese, è una formula nostalgica per riportare indietro la lancette del tempo rimarcando una mappa preunitaria di un pezzo d’Italia di cui non si comprende né l’esigenza né tanto meno la legittimità.  Le alterazioni di questi territori montani e delle città lungo la via Emilia, amministrate fino alla metà dell’Ottocento dalla dinastia Este di Modena, mutila da due secoli e mezzo delle primigenie terre ferraresi e rodigine, non consentono se non una loro ricomposizione virtuale tramite adeguate strumentazioni tecnologiche che giustamente la Direzione Regionale fa bene a sottolineare quali primari strumenti di valorizzazione. Il capostipite modenese, Cesare, in fuga da Ferrara sotto il diktat papale nel 1598, proveniva come noto da un ramo secondario del casato, cessato di fatto con la morte di Alfonso II, e tutta la politica ben poco espansionistica dei successori fino alla confluenza con la dinastia asburgica, fu espressione dell’intrecciarsi di interessi dinastici con le altre signorie padane al tramonto all’ombra delle grandi potenze europee. L’ ipotizzato intreccio fra Ferrara Modena Sassuolo e Reggio Emilia potrebbe meglio precisarci entro la configurazione di un sistema di regge e delizie fra città e campagna per comprenderle tutte – da Belriguardo alle Pentetorri -, sul modello del sistema dei castelli appenninici reggiani o piacentini, ma con  le dovute differenze, perché anche la tanto invocata “narrazione” a scopi turistici dovrebbe rispondere a forme e modelli assai differenti, poiché espressioni di storie diverse, non interagenti e tanto meno  parallele.

Ogni progetto culturale che  possa definirsi serio deve tenere conto della storia pregressa e del suo significato. Ecco perché, nell’ambito della stessa invocata “rinascita”, non convince affatto lo spostamento della Pinacoteca Nazionale di Ferrara, entrata di recente nell’orbita della Galleria Estense di Modena,  entro le mura del Castello. Di estense, vale dire originato dal collezionismo di corte o anche ad esso collegabile, essa non possiede notoriamente nulla: i cosiddetti “resti delle raccolte ducali, dopo la devoluzione di Ferrara alla Chiesa e il trasporto della capitale a Modena, appartengono alla Galleria Estense ( il celeberrimo studio di Adolfo Venturi, che a quanto pare alcuni ancora non conoscono, La Regia Galleria di Modena, stampato nel 1884, è una pietra miliare in proposito), se non tutti, almeno i superstiti dopo l’altrettanto celebre, quanto vituperata vendita di Dresda.   A Ferrara, città di assenze per le sfortunate vicende post ducali, non rimase che ricorrere nell’Ottocento al recupero di opere locali essenzialmente da chiese per istituire una Civica Pinacoteca nel 1836, stabilizzata poi nel 1842 in Palazzo dei Diamanti che ne divenne da allora, per 174 anni fino ad oggi, la  sede storica.  La statalizzazione, dopo accessioni di grandi e piccoli formati per iniziativa della municipalità e di privati, avvenne nel 1956.   Da allora, con sempre maggior impulso dinamico, si sono succeduti interventi riparatori alla struttura monumentale lesa dalla guerra, restauri ai coperti e ai paramenti murari, riorganizzazioni espositive in ragione di importanti acquisizioni di raccolte e opere provenienti dal collezionismo locale otto-novecentesco, fino al deposito gratuito della collezione di dipinti della locale Cassa di Risparmio e alla giusta attribuzione della ex raccolta Sacrati Strozzi da parte dello Stato.  La Pinacoteca di Ferrara è quindi a tutti gli effetti espressione delle volontà locali, nonché museo del collezionismo e di quello che resta delle antiche quadrerie ferraresi, vale a dire di quella stagione luminosa di età moderna  di impronta borghese che intese riparare ai danni di una estirpazione storica di opere d’arte senza precedenti.  Dunque nulla ha a che spartire con la più famosa delle dimore estensi, il Castello, certamente il più visitato dei monumenti ferraresi, museo di se stesso e che bene si adatterebbe a sede di mostre temporanee una volta liberato interamente da situazioni improprie.   Non sarebbe poca spesa, ma già i 7 milioni stanziati dal Ministero per Ferrara fanno ben sperare per il futuro. Da ultimo non si comprende come i grandi formati ad affresco di provenienza ecclesiastica potrebbero entrarvi, isolatamente o peggio ancora con le strutture allestite ad hoc in tempi recenti.

La discussione avviata sul trasferimento della Pinacoteca in Castello, che potrebbe costituire un precedente per altri casi italiani, è perciò quanto mai provvidenziale, purché condotta  nell’ambito di una riflessione generale sullo stato dei musei ferraresi e nell’ottica della necessità di realizzare un sistema museale  ferrarese, come da più parti invocato e mai realizzato.   E’ questo un passaggio che deve precedere l’ansia di inaugurare velocemente un circuito turistico cui ancorarsi per far lievitare numeri e investimenti. Il Palazzo dei Diamanti ha costituto da tempo un centro riconosciuto per mostre: è bene ricordare a tale proposito come fin dagli anni Sessanta esso sia stato sede delle prime mostre di avanguardia di arte contemporanea in Italia, italiana e straniera, primo  per far conoscere la Pop Art nel nostro paese. Ma è indubbio che lo spazio destinato a questo compito è ormai esiguo, e una riflessione anche qui si impone, ma non a scapito della Pinacoteca. Vi è un intero comparto urbano da valorizzare, quel quadrivio che si affaccia fra corso Ercole d’Este e Corso Porta Po immettendo sulla vecchia via degli Angeli: un nodo storico urbanistico fra i più significativi, certamente il più celebre,  dell’Italia rinascimentale, che altri due Palazzi, Palazzo Prosperi Sacrati e Palazzo Bevilacqua, ornano ai lati, entrambi idonei ad ospitare attività culturali. Non valorizzare degnamente questo comparto equivale alla rinuncia di un impegno plurisecolare.

Jadranka Bentini, presidente della sezione bolognese di Italia Nostra, già soprintendente ai beni storici e artistici per le province di Modena e Reggio Emilia.