L’Amministrazione comunale ha presentato pubblicamente (in un rapporto diretto con i cittadini, in piazza, nella stessa Piazza Mazzini) il proprio progetto. Fine dichiarato, la riqualificazione dello spazio che nasce nel cuore della città dalla liberazione del Ghetto e dalla donazione disposta dalla Comunità israelitica dell’area risultata dall’atterramento di quell’isolato (ricordiamo l’originario toponimo, piazza della libertà). Un primo doveroso rilievo di metodo: il progetto è elaborato all’interno degli uffici tecnici comunali che hanno la competenza al riguardo e la coscienza della città, chiusa definitivamente la non felice stagione dell’affidamento a firme di prestigio, da ultimo Botta, che considerano le piazze modenesi come la occasione di eleganti esercizi del loro stile. Corretto il ricorso a una vasta consultazione per ricavarne sollecitazioni e utili indicazioni da chi vive la città e orientare la discrezionalità, certamente limitata ma presente nelle specifiche scelte di progetto, pur se si tratta di uno spazio urbano esplicitamente riconosciuto come bene culturale, piazza pubblica di interesse storico, perciò soggetta ai vincolanti principi del restauro dettati dal codice dei beni culturali.
Nella presentazione dell’altra sera è stata ripercorsa la vicenda del luogo aperto all’uso pubblico della città nei primi anni del secolo scorso, pur se progettato quasi vent’anni prima con la anticipazione dell’edificio (la Sinagoga, progettista il Maglietta) che sarebbe stato il fondale della piazza fin da allora concepita come piazza giardino con la vasta aiuola centrale protetta da una cancellata.
Anche Modena fu vittima del generale “pregiudizio igienico” (così oggi ci appare) che caratterizzò il rinnovo urbano di quei decenni con interventi di diradamento edilizio finalizzati alla creazione di moderni servizi di cui la città avvertiva il bisogno. Con la verde Piazza Mazzini, il Mercato di via Albinelli e ad esso collegata la Piazza XX settembre destinata al diverso mercato ambulante. La cultura di allora non aveva maturato la coscienza dei valori del centro storico (che è acquisizione della più moderna riflessione critica sulla città) e non poteva avvertire la conseguente esigenza conservativa, che ci impegna oggi a rispettare gli esiti di quella stagione della storia urbana. La moderna cultura dei centri storici è divenuta, con la istanza conservativa per restauro e risanamento conservativo, disciplina vincolante anche del nostro piano regolatore. E ha sorpreso che alla presentazione dell’altra sera l’Assessore abbia indicato nelle trasformazioni stilistiche introdotte secondo il gusto di allora nei prospetti degli edifici di contorno della piazza, la prova della legittimazione ad analoghi interventi di trasformazione del centro storico nei modi della architettura di oggi.
Ebbene, attuato l’atterramento dell’isolato, la forma dell’invaso fu rettificata e regolarizzata anche con parziale demolizione degli edifici lungo i lati (soppresso il portico della cortina di occidente) e i prospetti dei fabbricati di contorno furono infine uniformati secondo modi e decori di gusto liberty (riconoscibile il raffinato disegno degli architetti Prati e Zagni). Un intervento di misurata eleganza secondo la migliore cultura urbana del tempo sulla linea di una attitudine ravvisabile anche nelle più illustri capitali europee; a Modena l’unico esempio di omogeneità anche architettonica di un ambiente urbano.
Un assetto che ha mantenuto il suo essenziale carattere pur con la realizzazione nei primi anni trenta del Novecento del sotterraneo albergo diurno (così ridotte le dimensioni dell’aiuola centrale), in linea con la evoluzione degli usi degli spazi urbani per assicurare nuovi servizi alla residenza in città, di cui sono esempi le analoghe opere a Milano, Roma, Bologna, Napoli, Palermo, ma anche Parma, Pisa, Brescia. A Milano, in particolare, l’ex diurno “Venezia” di piazza Oberdan, un elegante e funzionale centro servizi per viaggiatori realizzato tra il 1923 e il 1925 su progetto di Piero Portaluppi, chiuso nel 2006 dopo decenni di abbandono, è stato recentemente restaurato e riaperto ai tanti visitatori con la gestione del Fondo per l’Ambiente (FAI).
Si assiste oggi ad un rinnovato interesse di studio per questi piccoli spazi sotterranei costruiti, a partire dal primo decennio del ‘900, con funzione prevalentemente igienica e sociale (ancora diffusa l’assenza di bagni nelle civili abitazioni) e per soddisfare le esigenze di viaggiatori (le biglietterie ferroviarie e le prime agenzie di viaggi), ma anche come luoghi di incontro con occasioni di svago offerte ai cittadini oltre ai comuni servizi alla persona (1).
Crediamo che non si possa dubitare che anche il diurno di Modena presenti interesse storico, non solo perché segna una precisa fase nella vicenda urbana e dei servizi alla città (funzione esaurita nell’arco di quarant’anni), ma pure perché fu realizzato con intenzioni formali di tardo gusto liberty espresso anche nella scelta accorta degli arredi e dei materiali di impiego. Insomma il diurno contribuisce a rendere il carattere di questo luogo urbano ed è perciò soggetto ai principi del restauro, rimanendo ancora aperto il tema del suo reimpiego per usi analoghi a quello originario o che comunque non siano con esso incompatibili. Crediamo che la destinazione funzionale di questo vasto manufatto (400 mq di superficie in un luogo cruciale per la città) rientri nella responsabilità di governo pubblico della città e ad esso sia riservata (la identificazione del servizio che in quel luogo debba essere soddisfatto) e non possa quindi essere rimessa alle opzioni di chi – soggetto privato interessato – risponderà alla chiamata del bando di concorso e gara per la concessione – gestione dello specialissimo luogo.
Dunque per Piazza Mazzini si pone un tema di restauro urbano (non già di libera progettazione, come intesa dall’architetto ticinese) e alla storia del luogo l’intervento sarà necessariamente orientato nel sostanziale rispetto della originaria idea inventiva, cui seppe adeguarsi la innovazione del diurno. Ne stravolse invece il disegno la più recente riorganizzazione funzionale di superficie anche con il gioco arbitrario di differenziati livelli e l’impiego di materiali di pavimentazione non appropriati. La soglia sopraelevata sulla linea della via Emilia è fattore (così a noi pare) non già di valorizzazione del luogo (come intende anche il progetto presentato alla discussione che anzi enfatizza il senso di quella soglia), ma di inopportuna cesura nella continuità di superficie degli spazi pubblici nel cuore della città e tradisce il senso della piazza, aperta verso la principale strada urbana e in diretta comunicazione con la fronteggiante Piazzetta delle Ova . Crediamo quindi che Piazza Mazzini, nel rispetto del suo assetto originario, debba essere riportata al medesimo livello di tutte le vie che vi conducono (come da sempre quanto alle due di immissione sul fronte a nord), emergendo da quel livello la piattaforma centrale della aiuola alberata. Ripristinati per altro i marciapiedi lungo i fabbricati dei due lati, nelle dimensioni e nel rilievo originari. Né si pone il problema di liberare la prospettiva verso il tempio israelitico che espone verso la piazza un prospetto laterale e che fu originariamente progettato contestualmente all’arredo verde della piazza che ne avrebbe costituito uno schermo pur se non impenetrabile. E se non può dirsi appropriata la più recente scelta delle essenze, non si vede tuttavia ragione per l’abbattimento di piante che già si sono acclimatate e per così dire sono assimilate dall’ambiente. Con il caratterizzato ambiente architettonico siano armonizzati i materiali della pavimentazione e si verifichi attentamente se le proposte lastre di granito corrispondano (e a noi pare che non corrispondano) a questa fondata esigenza restaurativa, quando una attenta indagine consente per certo di giungere alla identificazione della natura dei materiali utilizzati nell’assetto originario, da impiegare perciò nella progettata riqualificazione.
Modena, 5 settembre 2016
Italia Nostra, sezione di Modena.
(1) La studiosa Chiara Prosperini che ai diurni ha dedicato una documentata ricerca (Le città sotterranee di Cleopatro Cobianchi, 2003, Edizioni ETS), ne parla cosi: «Erano diffusissimi e ne esistevano di vari livelli: alcuni erano perfino decorati con marmi policromi e mosaici in oro, realizzati a partire dal 1911 dall’imprenditore bolognese Cobianchi su modello di quelli esistenti a Londra. Anche se bellissimi la loro funzione era prevalentemente igienica e sociale e per questo, quando dagli anni Sessanta in poi hanno cominciato a essere utilizzati sempre meno, nessuno ha pensato che valesse la pena preservarne gli arredi o la struttura, che tra l’altro è uno dei pochi esempi di stile liberty in Italia. Sono stati percepiti come passato prossimo, mentre erano già storia».
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