La “riforma Franceschini”, un regolamento illegittimo per la disarticolazione delle istutuzioni di tutela

 

La “riforma Franceschini”, un regolamento illegittimo per la disarticolazione delle istituzioni di tutela.

Si deve riconoscere al ministro Franceschini una speciale capacità di iniziativa, uno straordinario impegno politico. Risparmiato dal radicale ricambio, nella compagine governativa del giovane presidente del consiglio è l’unico esponente della classe politica del partito di cui era stato segretario (sia pure in una fase di transizione). Il ministero che gli è assegnato, nella considerazione comparativa dei ruoli, occupa una posizione non primaria, anzi tradizionalmente residuale. Ma il nuovo titolare si sente “alla guida del più importante ministero economico italiano”.

Il ministero voluto da Spadolini nel 1974 (istituito come si ricorderà per decreto legge) che Veltroni, il vicepresidente di Prodi, aveva voluto rifondare nel 1998 come nuovo ministero per i beni e le attività culturali, era stato da appena un anno caricato dal precedente governo Letta – legge n.71 del 2013 – delle attribuzioni nella materia del turismo trasferite dalla presidenza del consiglio. Un connubio imbarazzante (perché non al ministero dello sviluppo economico?) voluto nell’implicito ma certo presupposto che la tutela del patrimonio storico e artistico e del paesaggio debba fare i conti con il turismo se non proprio ne sia l’ancella. La nuova attribuzione è recente e ancora non ci si è misurati nel compito della non facile armonizzazione, oltre alla messa in coda alla denominazione del ministero di quel compito aggiunto, la T finale dell’acronimo MIBACT con qualche difficoltà di pronuncia.

Ebbene il governo Renzi è operante dalla fine del febbraio 2014 e già nel maggio il ministro Franceschini propone al consiglio dei ministri, che glielo approva il 31 di quel mese, il d. l. (n. 83) con le “disposizioni urgenti per la tutela del patrimonio culturale, lo sviluppo della cultura e il rilancio del turismo”. Sarà convertito in legge (28 luglio 2014, n. 106) e registrato dalla stampa e dalla distratta opinione dei non addetti come il provvedimento dell’art-bonus, dal suo primo articolo che riconosce il credito di imposta nella misura del 65 per cento – ma poi del 50 per cento – alle erogazioni  liberali in denaro a favore di manutenzione e restauro di beni culturali pubblici, a istituti e luoghi di cultura di appartenenza pubblica e alle fondazioni lirico-sinfoniche.  Sono sedici misure disparate, sette delle quali a sostegno del turismo, dalle quali non è dato di risalire a un disegno organico (se non l’inseguimento delle proclamate urgenze, ma è difficile cogliere i casi straordinari di necessità che legittimerebbero il decreto legge). Mi limito a dar conto di due disposizioni che riflettono una attitudine di insofferenza verso l’esercizio ordinario della tutela: l’ulteriore semplificazione dei procedimenti di  autorizzazione paesaggistica e la costituzione delle commissioni così dette di garanzia per il riesame dei provvedimenti dati dai soprintendenti nell’esercizio della tutela, fino a convertire in sì il diniego dato in sede di conferenza di servizi: una misura questa, introdotta con la legge di conversione, gravemente lesiva della autonomia tecnico-scientifica dei soprintendenti. Nessuna preoccupazione di armonizzare tra loro le discipline di tutela e turismo, essendo le misure di “rilancio del turismo” (articoli 9, 10 11, 11-bis 13, 13-bis) del tutto indifferenti rispetto ai provvedimenti di promozione del patrimonio culturale.

Ma è nell’articolo 14 di questo decreto legge convertito che sta il germe della più ambiziosa  riorganizzazione del ministero, essendo appunto qui date le misure urgenti per quell’obbiettivo e “per il rilancio dei musei”, con modifiche all’art. 54 del d.lgs. 300 del 1999 di organizzazione del governo, per consentire al ministro l’adozione di misure di riordino al dichiarato fine di  conseguire ulteriori riduzioni di spesa (oltre a quello, francamente pretestuoso,  di migliore gestione degli interventi a seguito di eventi calamitosi), introdotto innanzitutto (a smentire quel fine) un vistoso rafforzamento della struttura burocratica centrale dove il numero degli uffici dirigenziali generali “non può essere superiore a 24”, contro le dieci direzioni generali coordinate da un segretario del vigente ordinamento secondo il decreto legislativo del 1999, così modificato. Al ministro è data la facoltà di riorganizzare con propri decreti e in via temporanea gli uffici del ministero esistenti nelle aree colpite da eventi calamitosi; e di trasformare in soprintendenze dotate di autonomia scientifica, finanziaria, contabile e amministrativa i poli museali e gli istituti e i luoghi della cultura statali e gli uffici competenti su complessi di beni di eccezionale valore archeologico, storico, artistico o architettonico. Decisiva la  modificazione introdotta nell’art. 14 in sede di conversione dove con enfasi francamente di maniera, al dichiarato fine di adeguare l’Italia agli standard internazionali in materia di musei e di migliorare la promozione della cultura, anche sotto il profilo della innovazione tecnologica e digitale, si rimette al regolamento di organizzazione del ministero “ai sensi della normativa vigente” di individuare i poli museali e gli istituti di cultura statali di rilevante interesse nazionale che costituiscono uffici dirigenziali. Con questo lessico burocratico è avviato, come sarà reso evidente dal consecutivo (non rimane che attendere giusto un mese) regolamento di  riorganizzazione del 29 agosto, il processo di scorporo dalle soprintendenze dei musei che delle soprintendenze, fucine territoriali della tutela, sono storicamente essenziali elementi costitutivi. L’adeguamento agli standard internazionali si deve intendere perseguito dall’innovativo criterio di conferimento degli incarichi direttivi dei supermusei attraverso la selezione aperta alla partecipazione esterna al personale tecnico scientifico, perché qui c’è bisogno “di persone di particolare e comprovata qualificazione professionale in materia di tutela e valorizzazione dei beni culturali e in possesso di una documentata esperienza di elevato livello nella gestione di istituti e luoghi di cultura”. Per legge dunque una patente di incompetenza agli attuali direttori, la mortificazione del personale tecnico scientifico che ha maturato specifiche conoscenze e competenze nella prassi operosa della cura delle raccolte museali statali. Il ministro, lo ha detto e ripetuto, vuole un reclutamento dalle esperienze museali straniere che ben poco hanno in comune con le originalissime istituzioni del nostro paese.

Al ministro è bastato un mese (già si è detto)  per proporre e far approvare dal consiglio dei ministri il regolamento di riorganizzazione del ministero, con vantati contenuti di radicale innovazione e con estensione alla materia del turismo recentemente  trasferita dalla presidenza del consiglio (è lo stesso Franceschini a presentarlo alla stampa come “la rivoluzione dei beni culturali”), adottato con decreto del presidente del consiglio dei ministri in deviazione dalla disciplina dell’attività di governo  e ordinamento della presidenza del consiglio (art.17 della legge 23 agosto 1984, n. 400) che vuole approvati con decreto del presidente della repubblica, previa deliberazione del consiglio dei ministri, e sentito il parere del consiglio di stato e delle competenti commissioni di camera e senato, i regolamenti di organizzazione e funzionamento delle amministrazioni pubbliche. Nel rispetto di questo vincolante modello erano stati approvati tutti i precedenti regolamenti di organizzazione del ministero beni culturali che si sono succeduti con irragionevole frequenza, rendendo persistentemente instabile l’assetto funzionale del ministero specie per i modi operativi degli uffici centrali. Ben quattro dall’inizio del secolo i provvedimenti regolamentari  al riguardo (dpr 441/2000; dpr 173/2004; dpr 233/2007, infine dpr 91/2009). Ma ogni nuova scelta regolamentare è il risultato di una vasta partecipazione consultiva, aperta anche a contributi non istituzionali.

A questo modello (richiamato dal comma 3 dell’art.14 con la espressione: “ai sensi della normativa vigente”) si sarebbe dovuto attenere il regolamento di organizzazione del ministero beni attività culturali e turismo al quale il convertito decreto legge art-bonus  rimette la individuazione di poli museali, istituti di cultura statali di rilevante interesse nazionale, uffici competenti su complessi di beni distinti da eccezionale valore archeologico, storico, artistico o architettonico, trasformati in soprintendenze dotate di autonomia scientifica, finanziaria, contabile e amministrativa.

E invece lo stesso titolo del regolamento approvato con il decreto del presidente del consiglio dei ministri 29 agosto 2014, n.171 indica la propria fonte primaria nell’art.16, comma 4, del d.l. 2 aprile 2014 n. 66, convertito con modificazioni dalla legge 23 giugno 2014, n. 89 (“misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale”) che consente di adottare i regolamenti di organizzazione dei ministeri in quella forma semplificata “al solo fine di realizzare interventi di riordino diretti ad assicurare ulteriori riduzioni di spesa”. Non sembra contestabile che il nuovo rivoluzionario, parola di Franceschini, regolamento di organizzazione del ministero cui il decreto legge art-bonus affida ben più impegnativi compiti con la sola avvertenza di non introdurre “nuovi e maggiori oneri per la finanza pubblica” (non di “assicurare ulteriori riduzioni di spesa”) non trovi in quella specialissima fonte la sua legittimazione e non sarebbe potuto sfuggire alla prescritta partecipazione consultiva istituzionale, per essere infine sottoposto alla firma del presidente della repubblica. Non si tratta di un mero vizio di forma, irrilevante nel merito dei contenuti, come ben si intende. Alla determinazione dei modi dichiaratamente innovativi di amministrare la funzione dell’articolo 9 della costituzione sono stati negati i contributi di parlamento e consiglio di stato.

Il preambolo dello stesso decreto “rileva[ta] la necessità di provvedere al riordino delle strutture organizzative del ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, dando esecuzione alle misure previste dall’art. 2, comma 10, del d.l. n. 95 del 2012”. Si tratta del provvedimento, convertito nella legge 7 agosto 2012, n. 135, che detta innanzitutto “disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica”, ricevuto generalmente come il tormento della spending review. Ebbene la disposizione di quel comma 10 dell’art. 2 consentiva di adottare, entro un breve termine (consecutivo comma 10-ter, ma poi due proroghe, la seconda al 28 febbraio 2014), i regolamenti di riordino e organizzazione dei ministeri interessati nella forma del decreto del presidente del consiglio dei ministri “al fine di semplificare ed accelerare il riordino previsto” appunto dalla spending review. E nel rispetto di quel termine aveva infatti provveduto il presidente del consiglio dei ministri adottando il regolamento di riorganizzazione del ministero per i beni e le attività culturali e il turismo con proprio decreto 28 febbraio 2014, salvato così in extremis il termine dell’ultima proroga. Ma questo decreto – regolamento fu “ritirato” il 30 giugno successivo, come dà conto il preambolo del decreto 171/2014 che qui discutiamo, “per consentire l’adeguamento dell’organizzazione del ministero a quanto disposto dal citato decreto-legge n. 83 del 2014”, dall’art.14 appunto di questo decreto art-bonus. Scaduto il termine del 28 febbraio 2014, alla attuazione  delle misure previste dalla spending review non era più data la facoltà di provvedere con regolamento di organizzazione nelle forme semplificate e si sarebbe dovuto perciò adottare il modello  ordinario con procedimento concluso da decreto del presidente della repubblica. Per altro il regolamento che sanziona la radicale riforma nei modi operativi di questo ramo della amministrazione dello stato, deputato ad attuare il primario compito assegnato alla repubblica dall’articolo 9 della costituzione, non corrisponde funzionalmente al modello dato al fine  di semplificare ed accelerare il riordino della spending review. Neppure – a maggior ragione – può essere fatto rientrare a forza nella previsione di una norma speciale (l’art.16, comma 4, del d.l. n. 66 del 2014) che disciplina il regolamento adottato “al solo fine di realizzare interventi di riordino diretti ad assicurare ulteriori riduzioni di spesa”, come già abbiamo constatato, e che non può certo valere a conseguire il recupero del termine per l’attuazione tardiva delle misure dell’art. 2 del d.l. n. 95 del 2012, irrimediabilmente scaduto. Insomma, il preambolo del d.p.c.m. 171/2014 richiama congiuntamente, come la duplice fonte della potestà regolamentare che si intende esercitare, il d.l. 95/2012 (con le “misure urgenti della spending review”) e il d.l. 66/2014 (con le “misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale”), ma la prima fonte, se pur fosse stata idonea, è esaurita e la seconda non abilita, per certo, alla radicale riforma dell’assetto funzionale  della amministrazione così al livello centrale come a quello periferico (ben oltre la esigenza di revisione della spesa e anzi in contrasto con l’esclusivo fine di “assicurare ulteriori riduzioni di spesa”). Riforma perseguibile necessariamente nel modo ordinario del partecipato procedimento, sanzionato infine dal decreto del presidente della repubblica (“ai sensi della normativa vigente”, come vuole l’art.14, comma 3, della legge 106/2014).

Dunque un regolamento di organizzazione illegittimo per l’indebito procedimento seguito, adottato sotto lo stimolo di una irragionevole urgenza (attivata la sola consulenza istituzionale-domestica del consiglio superiore per i beni culturali e paesaggistici), con instabili esiti, per altro, che ne hanno imposto come subito vedremo una correzione attraverso il conclusivo decreto ministeriale del gennaio scorso.

Rivoluzionario sì nel merito, l’illegittimo regolamento dell’agosto 2014. Italia Nostra vi ha colto la disarticolazione delle istituzioni di tutela, con la rottura del nesso organico tra soprintendenze e musei. E’ così portata al parossismo l’assurda scomposizione di tutela e valorizzazione, endiadi inscindibile, perché la valorizzazione è essenziale funzione della tutela. Una riforma che ignora la storia e la cultura della tutela nel nostro paese. Le soprintendenze sono nate come soprintendenze alle gallerie e le pubbliche raccolte dello stato unitario sono state le attive fucine della tutela del contestuale patrimonio diffuso nel territorio. Contro la storia e la natura stessa del patrimonio unitariamente concepito nel principio fondamentale dell’articolo 9 costituzione, è il rozzo artificio di questo assetto binario, ai musei l’esercizio della funzione di valorizzazione, alle soprintendenze, liberate dal peso dei musei, l’esercizio della funzione di tutela. L’esigenza di autonomia riconoscibile nei musei di speciali dimensioni ben può essere soddisfatta nell’ambito della organizzazione funzionale delle soprintendenze. Il regolamento dell’agosto 2014, dichiaratamente per esaltare le attrattive turistiche, opera una arbitraria selezione di qualità dei musei espulsi dalle soprintendenze (secondo due ordini di importanza, di prima e seconda categoria) riconosciuti degni di autonoma gestione, con reclutamento dei direttori in un concorso internazionale che ha poi privilegiato, attraverso un affrettato scrutinio dei titoli, le doti manageriali, non certo le specifiche competenze di studio e conoscenza delle singole raccolte, maturate negli anni all’interno degli stessi istituti. Con mortificazione del personale tecnico scientifico addetto e con esiti di qualità che ben sarebbe stata assicurata, per fare due soli esempi, da Natali agli Uffizi e da Casciu alla Galleria Estense. Tutti gli altri musei, ritenuti minori (come la pinacoteca nazionale di Bologna!) secondo una assurda gerarchia,  sono stati assemblati in una struttura burocratica, il polo museale, modellata non certo per riconosciute aree culturali, ma secondo il ritaglio del territorio regionale, mentre tutti super musei  e poli  fanno capo ad una apposita direzione generale secondo una astratta geometria piramidale, concettualmente e funzionalmente ingiustificabile, caricata del compito scolastico di presiedere allo sfuggente sistema museale nazionale, come se si trattasse di creare dal nulla la costellazione di moderni istituti espositivi. Un sistema, sì, in radicale contrasto con la originale storia delle nostre istituzioni di tutela,  mantenuto saldamente nelle mani del ministro che non solo nomina i direttori dei supermusei, ma si è pure riservato di scegliere fiduciariamente chi ne andrà a costituire i consigli di amministrazione, in quel disegno di singolare complessità che vuole pure i comitati scientifici (aperti alla rappresentanza di regione e comune di sede, funzionalmente incompatibile, si direbbe, con lo speciale ruolo dell’organo), dentro la griglia di un apposito statuto, irrinunciabile espressione, si deve intendere, della riconosciuta autonomia.

All’artificioso accorpamento dei musei “minori” nei poli museali fa riscontro l’assemblaggio di tutte le soprintendenze di merito, attuato in due consecutive fasi, dapprima con il regolamento dell’agosto 2014 tra quelle ai beni storico artistici e ai beni architettonici (così costituita la soprintendenza alle belle arti e al paesaggio: la civetteria della riesumazione del lessico desueto) e infine con il decreto ministeriale del gennaio scorso anche di quelle all’archeologia. Ne sono risultati sconvolti consolidati assetti funzionali e di servizi specie per le soprintendenze all’archeologia organizzate unitariamente per vaste aree culturali, strutturate sedi di studio, ricerca, scavi, con dotazione di archivi, cataloghi biblioteche, forzatamente oggi frantumate nelle più numerose sedi di destinazione, private infine della diretta responsabilità di gestione  di siti e musei archeologici, costituiti alcuni in istituti  di riconosciuta autonomia, gli altri, i “minori”, attratti nell’insieme indistinto dei poli museali. Alla unificazione delle soprintendenze di merito, giustificata da una astratta esigenza di semplificazione nei rapporti con i privati interessati, e di indimostrata economia di spesa  (un assetto periferico più agevolmente convertibile – certo – alla attesa subordinazione organica al prefetto), corrisponde al livello centrale la concentrazione in un’unica direzione generale dei compiti di tutela di patrimonio e paesaggio. Un impegno insostenibile, come con preoccupazione constatava alcuni giorni or sono Settis in una sua “opinione” su Repubblica, titolata “L’uomo solo al comando dei beni culturali”.

La fretta precipitosa del ministro nel dare attuazione tra luglio e agosto 2014 alla previsione di un regolamento di organizzazione del ministero ha prodotto questo procedere a singhiozzo in due fasi, con il decreto correttivo dello stesso ministro di questo gennaio che ha costituito la soprintendenza unica (assorbita anche quella all’archeologia) e ha allungato l’elenco dei musei e luoghi di cultura degni di autonoma gestione. Doppio lo stress operativo del conferimento degli incarichi direzionali, riaperto nuovamente il concorso per le soprintendenze ora unificate e per la corrispondente direzione generale. Per dare al ministro questa facoltà si è dovuta scomodare la legge di stabilità 2016, con il comma 327 del suo primo articolo (secondo il furbesco e pessimo modo di scrivere le leggi che governo e maggioranza vogliono approvare in fretta)). Di questo decreto ministeriale Italia Nostra ha segnalato una disposizione allarmante (l’art. 7, comma 2), quella che in pratica abilita al libero trasferimento dei beni da un museo all’altro del polo museale o tra i distinti istituti dello stesso supermuseo, così definitivamente smarrite le specifiche  identità.

Per finire mi limiterei a leggere la conclusione del documento che il consiglio direttivo nazionale di Italia Nostra (“Completata la disarticolazione delle istituzioni di tutela. Un esito che investe la responsabilità del parlamento”) ha dedicato a questa inconsulta riforma.

“Di fronte allo sconvolgimento del consolidato sistema di diffusa presenza territoriale nel nesso solidale tra istituti museali e cura dei contesti di necessario riferimento, che costituisce la originale caratterizzazione della istituzione della tutela nel nostro paese (indicata come esemplare anche nel panorama europeo), sembra ad Italia Nostra che ne sia investita la responsabilità del Parlamento. Perché necessariamente verifichi se l’esito dei  distinti e disorganici provvedimenti legislativi che pur hanno legittimato la recente riforma nella organizzazione del ministero della tutela di paesaggio e patrimonio storico e artistico abbia corrisposto alla esigenza di piena attuazione del precetto costituzionale o non abbia invece gravemente indebolito l’esercizio di una funzione della Repubblica cui è riconosciuto il ruolo di assoluta primarietà rispetto ad ogni altro interesse sia pure di rilevanza pubblica. E sappia quindi adottare le doverose misure, anche nella prospettiva della delegata riforma della pubblica amministrazione (escluse innanzitutto ogni presunzione di silenzio-assenso e la dipendenza delle soprintendenze dalle prefetture), idonee a ripristinare quel ruolo”.

Bologna, 13 maggio 2016

Giovanni Losavio.

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